martedì 24 marzo 2015

Come una nota a pié di pagina

Io scrivo frammenti. Non so perché, non so quand'è che mi è venuta, questa cosa qui. Perché siamo fatti così? Fatto sta che scrivo frammenti. O, come direbbe il mio vecchio, buon amico, Bobi Bazlen, "io scrivo solo note a pié di pagina".
Perché questo vorrei essere. Non testo. Non opera. Voglio essere la nota in fondo alla pagina, la nota senza la quale non si riesce a raggiungere la radice dei versi, il loro significato primitivo, la nota che fa superare l'impasse di un'allegoria troppo antica per essere compresa senza aiuti; la nota che contestualizza, che scopre l'etimologia, che spiega le trascrizioni strane.
Voglio essere un distico, non un sonetto.
Una parola, non una frase.
Una canzone, non un disco.
La linea del vostro elettrocardiogramma, non il vostro cuore.
Le vostre ciglia, i vostri capelli sparsi sul cuscino, le clavicole lisce.
Perché, vedete, non abbiamo null'altro di cui parlare se non dei sospiri, dei sorrisi nascosti, delle mani sfiorate per un secondo, delle corse dei bambini, delle braccia intorno al collo, dell'addormentarsi con la bocca un po' aperta. Perché è così che siamo siamo fatti.
Una volta, una volta ho letto la poesia di un mio compagno di università. Si chiamava Francesco. La poesia era interminabile, sfiancante, ma al centro aveva quattro bellissimi versi di un'incredibile dolcezza. Allora ho stampato la poesia e l'ho nascosta dentro a un libro. E l'ho lasciata lì.
Dopo anni, un giorno mi sono messa in testa di rileggerla, di ritrovarla. Ho passato due ore buone a cercare il libro, tra tutti quelli che ho qui, ma nulla, non c'era. L'avrò prestato a qualcuno, con la poesia dentro. Ma quei quattro versi potrei dirli a memoria, quei quattro versi li ricordo bene.
Come un distico. Come una nota a pié di pagina.