lunedì 17 gennaio 2011

che non deve farci caso, lei (che va bene così)

Alice è una ragazza del quartiere. Una della mia età, all'incirca, che tutti pensano che sia un po' matta.
Io non lo penso, però. Che sia matta, intendo.
La guardo sempre, dalla finestra grande del terrazzo. Aspetto per ore che passi, a piedi o in bicicletta, per la strada. E, quando la vedo, attacco il viso alla finestra e premo la fronte contro il vetro più forte che posso, che è una cosa che fa imbestialire mia madre perché dice che poi lo deve pulire, il vetro, che ci rimane lo  tsampo. A me, dello stampo, non importa granché.
Ci sono volte in cui mi schiaccio con così tanta forza contro il vetro che ho quasi paura che mi veda. Alice, dico. Ma so che non è possibile, perché la porta-finestra del mio terrazzo ha i vetri a specchio, quelli che ti permettono di guardare fuori  senza essere visto, quelli degli interrogatori nelle centrali di polizia e delle macchine dei presidenti nei film americani. Quelli lì.
Una volta ho visto passare Alice per strada con i sacchetti della spesa. Due sacchetti, uno per mano, sembravano abbastanza leggeri. Li faceva roteare in alto, mentre camminava, colpendo i rami delle piante e facendosi cadere le foglie in testa. Rideva, e rideva così forte che la sentivo nonostante la finestra fosse chiusa. Faceva ridere qualcosa pure dentro di me, anche se non sapevo che cosa, e non sapevo se m'interessava. Qualcosa al centro dello stomaco, comunque, e profondissimo.
Fa cose strane e belle, Alice. Balza giù dall'autobus giusto un secondo prima che le porte si richiudano, centra le pozzanghere con tutti e due i piedi, scatta foto alle nuvole, parla con i gatti, ruba le rose dal giardino della vicina infilando il braccio tra le sbarre del cancello, e altre cose così. La gente crede che sia matta perché lei riesce a far coincidere esattamente il dentro con il fuori. Riesce ad essere trasparente.
Io le voglio bene, anche se non la conosco. Magari è perché sono identica a lei, senza alcuna differenza tra il dentro e il fuori, chiara e visibile come un pesce rosso nell'acquario. Ho pensato che forse è per questa ragione che, a volte, mi riparo dietro vetri impenetrabili. Che è per questa ragione, forse, che sento di voler proteggere Alice dai pensieri acidi della gente del quartiere. Di voler essere il suo vetro a specchio e respingere, far rimbalzare indietro le ostilità altrui.
Spesso, quando la guardo, appoggio la mano sulla finestra, e con l'indice, piano, accarezzo quella testa minuscola e le sussurro che non deve farci caso, lei, agli stronzi che ci sono in giro, che non deve mai trattenere le risate, anche se sono così forti che si sentono fino in fondo alla strada, che va bene così. A volte vorrei spalancare tutto e gridarglielo dal terrazzo.
Stamattina l'ho vista. Portava a spasso il cane, e una bambina perfettamente vestita e truccata da Pippi Calzelunghe l'ha fermata. Voleva fare una carezza al piccolo setter, ma poi gli ha soltanto sfiorato la coda con la punta delle dita, perché aveva paura. Si sono anche dette qualcosa che io, però, non ho sentito, perché la finestra era chiusa.
L'ho aperta.
- Lo so che non è Carnevale – ha fatto la bambina, indicando le finte lentiggini disegnate sul proprio viso.
- Ma io non ho detto niente, infatti – ha risposto Alice con un sorriso.
- Ok, ok. Era per dire. -
- Sei bella, sai? - Alice ha piegato leggermente la testa di lato. - Sembri un leopardo. -

(Racconto scritto per "Il Buco - note di uno stitico", n. 3.)

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