giovedì 1 settembre 2011

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Fuggevole,
hai sassi e sogni e strette di mano e sguardi di nuvola nelle tue tasche.
Scegli tu cosa lasciare.

Io,
con un calcio ben assestato, spedisco il mio cuore tra i flutti:
- Nuota! -, gli grido. 

domenica 6 marzo 2011

quando ancora non sapevo mettere bene gli accenti

Com'è bello, oh, sì, io lo credo davvero, com'è bello quando si sta male e poi si è talmente sfiniti che ci si addormenta con la bocca un po' aperta. Perché sembra che non ci sia più nulla di cui aver paura.

mercoledì 23 febbraio 2011

in fondo, può ancora essere una bella giornata

Oggi è successo che è successa una cosa strana. Una cosa che, in realtà, potrebbe forse essermi capitata anche altre volte, però io di altre volte non mi ricordo. Tant'è.
Ero in cucina e mi preparavo il caffè, un po' dopo pranzo, che di per sé non è una cosa assurda, perché lo faccio sempre. Ho versato il caffè nella tazzina, ho preso il cucchiaino più brutto, quello che non usa mai nessuno, dal cassetto delle posate, e mi sono seduta a tavola. Ho aggiunto un po' di zucchero e ho bevuto il caffè, aspettando giusto un momento per non scottarmi la lingua, che è una cosa che odio perché poi mi brucia per giorni e non sento nemmeno i sapori. Poi ho riappoggiato la tazzina sul tavolo e, istintivamente, ho preso tra le mani il barattolo dello zucchero, che è un cilindro tutto fatto di cartone tranne il tappo; quello è di plastica. Ho cominciato a fissare il barattolo, ma senza concentrarmi, così dopo un poco è diventato tutto sfocato. Lo fissavo sempre, ma come attraverso degli occhiali appannati, per intenderci. In realtà non ci facevo nemmeno caso, ecco. Poi, senza pensarci, ho preso a tamburellare con le dita sul barattolo. La cosa straordinaria è che non stavo pensando  proprio a niente. Almeno a livello cosciente, intendo. Più tamburellavo nel silenzio di casa, più mi sentivo come un dischetto da hockey lanciato sul ghiaccio in un mondo ipotetico privo di gravità.
Ed ecco che poi, di botto, così, mi sono interrotta, perché mi ero accorta che il rumore delle mie dita sul cartone sembrava quello della pioggia su una tettoia. Mi sono morsa l'interno della guancia, in un piccolo sorriso, e ho cominciato a tamburellare lentamente sul barattolo, poi sempre più veloce e più forte, poi con tutte e due le mani, e sembrava di essere sotto la pioggia scrosciante.
Sono rimasta così non so quanto, ma credo almeno cinque minuti. In silenzio e con gli occhi chiusi, a sentire la pioggia, dentro la mia cucina, nel barattolo dello zucchero.

mercoledì 16 febbraio 2011

sometimes I prefer drawing #3

my own private alphabet

A.   ardent
B.   books (just the extraordinary ones)
C.   children's laughs, Charlie Chaplin and, of course, creativity
D.   doodle (always drawing-writing-scrawling on any surface, damn it!)
E.   eclecticism, but even empathy
F.   fencing
G.   going to sleep so late
H.   hugs and hate for clocks, too
I.    imaginative
J.   jumping over the bed
K.   kindness
L.   light-heartedness and letters, too
M.  music addiction
N.  naïveté
O.  oh my god, what's this mess? (my mother staring at my room)
P.   painting
Q.   quality not quantity
R.   rollerblade inline skates
S.   singing while riding my bike
T.   tenderness
U.   unstoppable
V.   video-making (low budget)
W.  watchamacallit / writing
X.   x? I hate Maths
Y.   Yeats
Z.   Zazie dans le métro

venerdì 4 febbraio 2011

un principio di costellazione

Mi piacerebbe, a piedi scalzi, misurare il tocco dell'erba senza schiacciarla. Quando ci si cammina, sull'erba, si sta sempre attenti a non calpestarne troppa. Troppe margherite, troppi trifogli, troppe campanelle, troppi centocchi, si cerca di non premerli giù.
Io, almeno, faccio così. Cerco di passarci sopra leggermente, di risparmiarli in punta di piedi per la tenerezza che mi piantano negli occhi, sotto e in mezzo e in fondo alle ciglia. Radificano lì.
Bisognerebbe passare con la stessa delicatezza sulle persone, sempre. Sono loro, poi, che ti trattengono, che tirano più in giù le tue radici, semmai.
Una volta, ho visto una bambina di tre anni con sua madre, al parco. La bimba si è seduta pianissimo sull'erba, e poi, lentamente, ha lasciato andare la schiena, all'indietro, come se la forza di gravità avesse rallentato, per un attimo. Si è adagiata sul verde. Si è distesa, chiedendo il permesso, sull'erba.
Conoscevo quella bambina. Aveva predetto che sua madre aveva un fratellino per lei, in pancia, ancora una settimana prima che la mamma stessa lo venisse a sapere.
Lei, invece, lo sapeva già. L'aveva letto non so dove, forse nelle nuvole, con la schiena sostenuta da fili d'erba.

venerdì 21 gennaio 2011

le parole che suonano bene (pt. 1)

scriteriato // fotosintesi // clorofilla // ceralacca // eclettico // ellittico // poliedrico // sinestesia // sineddoche // metastasio // rinoceronte // scompisciarsi // volitivo // pandemonio // métro (alla francese) // domino // sicché // nuvola // miriade.

E continua, eccome se continua.

martedì 18 gennaio 2011

diciamo che nel frattempo

Dov'è che stai?
Io mi perdo
e scrivo,
e non torno più.
E non mi trovi più.
E non avevo mai visto un modo del genere.

lunedì 17 gennaio 2011

che non deve farci caso, lei (che va bene così)

Alice è una ragazza del quartiere. Una della mia età, all'incirca, che tutti pensano che sia un po' matta.
Io non lo penso, però. Che sia matta, intendo.
La guardo sempre, dalla finestra grande del terrazzo. Aspetto per ore che passi, a piedi o in bicicletta, per la strada. E, quando la vedo, attacco il viso alla finestra e premo la fronte contro il vetro più forte che posso, che è una cosa che fa imbestialire mia madre perché dice che poi lo deve pulire, il vetro, che ci rimane lo  tsampo. A me, dello stampo, non importa granché.
Ci sono volte in cui mi schiaccio con così tanta forza contro il vetro che ho quasi paura che mi veda. Alice, dico. Ma so che non è possibile, perché la porta-finestra del mio terrazzo ha i vetri a specchio, quelli che ti permettono di guardare fuori  senza essere visto, quelli degli interrogatori nelle centrali di polizia e delle macchine dei presidenti nei film americani. Quelli lì.
Una volta ho visto passare Alice per strada con i sacchetti della spesa. Due sacchetti, uno per mano, sembravano abbastanza leggeri. Li faceva roteare in alto, mentre camminava, colpendo i rami delle piante e facendosi cadere le foglie in testa. Rideva, e rideva così forte che la sentivo nonostante la finestra fosse chiusa. Faceva ridere qualcosa pure dentro di me, anche se non sapevo che cosa, e non sapevo se m'interessava. Qualcosa al centro dello stomaco, comunque, e profondissimo.
Fa cose strane e belle, Alice. Balza giù dall'autobus giusto un secondo prima che le porte si richiudano, centra le pozzanghere con tutti e due i piedi, scatta foto alle nuvole, parla con i gatti, ruba le rose dal giardino della vicina infilando il braccio tra le sbarre del cancello, e altre cose così. La gente crede che sia matta perché lei riesce a far coincidere esattamente il dentro con il fuori. Riesce ad essere trasparente.
Io le voglio bene, anche se non la conosco. Magari è perché sono identica a lei, senza alcuna differenza tra il dentro e il fuori, chiara e visibile come un pesce rosso nell'acquario. Ho pensato che forse è per questa ragione che, a volte, mi riparo dietro vetri impenetrabili. Che è per questa ragione, forse, che sento di voler proteggere Alice dai pensieri acidi della gente del quartiere. Di voler essere il suo vetro a specchio e respingere, far rimbalzare indietro le ostilità altrui.
Spesso, quando la guardo, appoggio la mano sulla finestra, e con l'indice, piano, accarezzo quella testa minuscola e le sussurro che non deve farci caso, lei, agli stronzi che ci sono in giro, che non deve mai trattenere le risate, anche se sono così forti che si sentono fino in fondo alla strada, che va bene così. A volte vorrei spalancare tutto e gridarglielo dal terrazzo.
Stamattina l'ho vista. Portava a spasso il cane, e una bambina perfettamente vestita e truccata da Pippi Calzelunghe l'ha fermata. Voleva fare una carezza al piccolo setter, ma poi gli ha soltanto sfiorato la coda con la punta delle dita, perché aveva paura. Si sono anche dette qualcosa che io, però, non ho sentito, perché la finestra era chiusa.
L'ho aperta.
- Lo so che non è Carnevale – ha fatto la bambina, indicando le finte lentiggini disegnate sul proprio viso.
- Ma io non ho detto niente, infatti – ha risposto Alice con un sorriso.
- Ok, ok. Era per dire. -
- Sei bella, sai? - Alice ha piegato leggermente la testa di lato. - Sembri un leopardo. -

(Racconto scritto per "Il Buco - note di uno stitico", n. 3.)

respirH2o

Oliver stanotte ha avuto un incubo.
Dalla mia stanza l’ho sentito mormorare qualcosa nel sonno, prima piano, poi con più forza, con decisione, come se stesse cercando di svegliarsi ma non ne fosse capace.
Allora mi sono alzata e sono entrata in camera sua, senza fare rumore. Mi sono seduta sul bordo del letto, gli ho appoggiato una mano sulla fronte ed ho avvicinato il naso al suo orecchio.
- Oliver, svegliati. Stai sognando, stai solo sognando -, ho sussurrato.
Lui per un momento ha trattenuto il fiato. Poi l’ho sentito aprire gli occhi, ho sentito le sue ciglia sfiorarmi il palmo della mano.
- Sei tu? -, ha chiesto.
- Sì. -
- Accendi la luce? -
- Ok. -
Ho staccato la mano dalla sua fronte e ho allungato il braccio per premere l’interruttore. La luce ci infastidiva, e per qualche secondo ci siamo guardati tenendo gli occhi socchiusi.
- Stai bene? -
- Sì. Adesso sì, meno male che sei arrivata. Arrivi sempre. -
- Ma io sento quando fai un brutto sogno, lo sai? Per questo mi alzo e ti vengo a svegliare ogni volta. -
- Perché lo senti? -
- Non lo so. Però è così. -
Mi sono stesa di fianco a lui, ad occhi chiusi.
- Lo sai che cosa ho pensato? -, ha fatto dopo un po’, girandosi verso di me.
- No, cosa? -
- Che certe persone sono così vicine, così unite, davvero, che è come se fossero una molecola d’acqua. Anzi, per essere precisi, sono le due molecole di idrogeno dell’H2O. Sai, quella con due atomi di idrogeno e uno di ossigeno, no? Quella. L’abbiamo studiata a scuola.-
- Sì, certo. -
- Ecco. Quelle persone sono come i due atomi di idrogeno. Dividono lo stesso ossigeno. -
- Cioè dividono lo stesso respiro. -
- Sì. Anche da lontano. -
Ho aperto gli occhi.
- Hai pensato una cosa bellissima. -
- E vera, anche. -
- E vera. Certo. -
- Forse noi siamo così. -
- Mi sa di sì. -
Oliver ha voluto che gli leggessi una storia, per farlo riaddormentare, così ho preso Fiabe Italiane dal suo comodino e ho cominciato a leggere a bassa voce. Lui però sembrava prestare più attenzione ad una mosca che ronzava per la stanza e che, di tanto in tanto, si fermava sulla pagina del libro.
- Posso leggere un po’ io?, – ha domandato.
- Se vuoi. -
- Dove siamo arrivati? -
Con l’indice gli ho indicato un punto sulla pagina e lui ha cominciato a leggere.
Dopo un po’ ha chiuso di colpo il libro, fortissimo. Voleva schiacciarci dentro la mosca.
Ha trattenuto il respiro, ha riaperto. La mosca non c’era.
Io ho guardato da un’altra parte e ho sorriso.

(Racconto scritto per "Il Buco - note di uno stitico", n. 2.)

ecco perché: il metrò, il metrò

- Già, sì; sciopero. Il metrò, questo mezzo di trasporto eminentemente parigino, s'è addormentato sotto terra, perchè gli addetti alle pinze perforanti hanno interrotto qualsiasi lavoro.
- Ah, porci,- esclama Zazie, - ah cialtroni. Farmi una roba così!
- Mica soltanto a te, - dice Gabriel, perfettamente oggettivo.
- Me ne sbatto. E' a me che succede, io che ero tanto felice, beata e tutto, di scarrozzarmi in metrò. Eh, c…!

(Raymond Queneau, "Zazie nel metrò")